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Autobiografia di un lupo-cane

CAP.1

Vita grama... e piega inaspettata che prendono gli eventi!

Autore: Ciuteina

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Per motivi di riservatezza preferisco tenere nascosta la mia identità, cioè tacere il nome che gli umani mi hanno affibbiato, posso solo rivelare che sono (ero?..) un siberian husky. Non conosco il significato, ma gli umani quelli come me li chiamano così. Intendo quelli con le mie caratteristiche morfologiche (come dicono loro). Anch’io non so perché sono nato proprio in quel posto, come tutti non so nemmeno perché sono nato. Del resto sono cose che noi non ci chiediamo mai, esistiamo e basta. (Sarebbe proprio il colmo che un cane si mettesse a farsi domande esistenziali! La filosofia è monopolio della specie umana.) Un momento! Anche se non è regolare, chiedo una piccola "concessione alla riflessione"; forse anche quest’affermazione è relativa: non fu forse il grande umano Einstein a dichiarare che tutto è relativo? (Ma che cane "acculturato"! Piano, cane, stai uscendo dal seminato. Cerca di non strafare. E parti dal principio, come vuole la logica. Concretezza, mi raccomando: stiamo con i piedi in terra.)

Dunque, so soltanto che ad un certo punto –ero cucciolo- sono stato prelevato e allontanato dalla mia famigliola canina. Perché? Non lo so. E’ andata così, punto e basta. Ho fatto il mio ingresso in una famiglia umana. Nessuno mi aveva chiesto il permesso, ovviamente, ma in poco tempo ho capito di essere per loro un oggetto di lusso. Che suono aveva quella parola che tanto spesso sentivo ripetere dagli umani all’intorno, e capivo che si riferiva a me? Ah, sì, PEDIGREE. Il significato mi è incomprensibile; altri suoni del linguaggio umano mi è stato più facile riconoscerli, se non proprio comprenderli.

Ma quella parola lì, proprio no: mi rimase sempre completamente oscura. L’unica cosa che la mia comprensione riusciva ad afferrare era l’orgoglio con cui veniva pronunciata. Ciò mi fece dedurre (dedurre, sì, se c’è per caso ancora qualcuno in giro che pensa che noi siamo stupidi) che quella parola mi etichettava come un oggetto di lusso. O un cane di lusso, ma credo che la cosa non faccia poi grande differenza per chi usa quel vocabolo. Insomma doveva essere proprio qualcosa di veramente importante, questo "PEDIGREE". Non sapevo se esserne contento o no. In effetti, venivo trattato con ogni riguardo. Dopo un po’ di tempo, però, incominciai ad avere il sospetto che, proprio a causa del senso di quella strana parola (mi aveva sempre ispirato un ché di diffidenza, istintivamente... non siete voi a dire che noi siamo mossi solo dall’istinto?) le cose stavano cambiando. Iniziai ad avere la netta impressione che la mia presenza in quella casa incominciasse a "pesare" ai "miei" umani. Strano, eppure non ero io ad avere scelto loro, erano stati loro a volermi lì. Ma noi non dobbiamo farci domande sulla condotta degli umani (stavolta cercherò di non contraddirmi). E, magari a modo mio, anch’io li avevo accettati, amati anche, direi, neppure io so se per riconoscenza (con qualche dubbio, a volte: riconoscente per cosa, dopotutto?) o per un innato senso di... fedeltà, sì, la solita trita storia della fedeltà canina. Trita e ritrita fedeltà canina che ci accomuna tutti, e comunque presente anche in me, nonostante il fatto che in seguito avrei saputo di essere... un po’ meno cane, a paragone di altri cani, e molto più lupo!

Per sette anni (secondo il computo umano del tempo) vissi praticamente confinato su un terrazzo, da solo. Non mi mancava nulla: buon cibo, e l’accesso in casa per dormire la notte... giusto per sgranchirmi le zampe, perché un husky, pur non disdegnando le comodità e il calduccio, non ha grossi problemi a dormire all’aperto, anche col gelo... come sperimentai più avanti.

Troppo lungo raccontare e descrivere le sensazioni che provavo in quel lungo periodo, durante il giorno. Non sapevo ancora definire i miei pensieri, non sapevo neppure cos’ero. (Ho detto che noi non ci facciamo mai domande sulla vita, ma c’è ancora qualcuno che osa mettere in dubbio che proviamo sensazioni? O che queste sono solo di tipo fisico? Beh, si faccia avanti! Grrrr!!!) Fu però in quel lungo periodo, credo, che nella mia mente canina cominciò a prendere forma, sia pure confusamente, l’idea (devo tradurre in parole per farmi comprendere da voi umani) di essere qualcosa di un po’ diverso da un cane... un lupo, forse? O un mezzo lupo, o una specie di lupo... ma che ne sapevo, io, dei lupi? Non ne avevo mai visti, e non ne vidi mai, nel corso della mia vita. Allora non sapevo cosa fosse un lupo. Ma qualcosa di indefinibile mi si agitava dentro. Dal mio terrazzo vedevo passare un’infinità di cani... le mie mezze identità! Ovviamente li invidiavo, per la libertà di muoversi che a me era negata... invidiavo infinitamente persino quelli che girovagavano legati al loro umano con una corda, cani di tutte le taglie, alcuni dall’aria decisamente felice, altri più sottomessi, piegati (anche di buon grado, magari!) o rassegnati ad osservare quel particolare tipo di comportamento che gli umani chiamano "disciplina" e che la maggior parte di essi tanto apprezza nella stirpe canina, quando riesce ad impartirgliela (o meglio... imporgliela).... e che io non riuscii mai ad accettare. Ma almeno tutti quei cani potevano sfogare un po’ delle loro energie e tenere in esercizio i muscoli, sgranchirsi le zampe a volontà. Io invece... è senz’altro vero che per noi "non umani" esiste solo il presente, eppure io, man mano che passavano i giorni (tutti uguali, sul mio terrazzo), incominciai a "vedere" il mio futuro davvero molto brutto... perché senza alcuna prospettiva di cambiamento.

Avvertivo in me delle pulsioni di cui ignoravo la provenienza (e che importa saperlo, dopotutto? Sto ragionando da umano, ogni tanto ci cado: troppo lunga la convivenza!), pulsioni che mi spingevano incoercibilmente, disperatamente, verso un’"immersione totale nella natura" ("full immersion" fa più trendy: impara, lupo-cane!) e che solo grazie alla mia componente "canina", non certo a quella "lupesca", riuscivo a stento a controllare. Anche nel senso che mai, mai una volta mi venne in mente di attribuire ai miei umani la causa della mia sofferenza. Probabilmente loro non la sentivano, la mia sofferenza, o forse doveva essere così, semplicemente perché loro avevano deciso che fosse così. E la mia parte canina, pur se non di buon grado, accettava supinamente la situazione. Del resto, che altro potevo fare? Scavalcare la ringhiera del terrazzo e lanciarmi nel vuoto? Quello era un quinto piano... e l’istinto di sopravvivenza prevaleva sempre e comunque. Sta’ di fatto che, a un certo punto, gradualmente mi misi a perdere l’appetito. Stavo perdendo la voglia di vivere, insomma. Ero affamato di libertà, e l’esigenza stava diventando talmente impellente, pressante, imperiosa, pesante che non riuscivo più a sostenerla. Cominciai a deperire. Non volevo certo causare preoccupazioni ai miei umani, ma non potevo farci niente. Mi sentivo dentro certi pruriti indefinibili, mi arrivavano dall’esterno un’infinità di stimoli sconosciuti che rendevano ancora più intollerabile la mia condizione di prigioniero....

C’era un umano che di tanto in tanto veniva a casa. Fin dalla prima volta che mi vide fu subito attratto da me. Ma in una maniera che percepii all’istante un po’ diversa dagli altri, da quelli che, al solo vedermi, si profondevano, con rumorose esternazioni, in complimenti sul mio aspetto fisico (sempre colpa, credo, di quel famoso "PEDIGREE"). No, per lui non era solo quello, lo sentivo. E me lo dimostrò coi fatti: fu l’unico, in quegli anni bui, a farmi uscire dalla prigione, anche se per poco e per poche volte. Furono i soli momenti veramente felici di quel periodo oscuro, in cui non vedevo via d’uscita allo squallido ripetersi delle mie giornate totalmente amorfe. Purtroppo, dopo avermi regalato tanta gioia facendomi correre liberamente in sua compagnia, lui mi riportava alla mia "casa-prigione" e spariva. Eppure, lo supplicavo con gli occhi di non lasciarmi lì. A volte pensai perfino che fosse un umano crudele. Ma lui mi avrebbe capito solo se mi fossi espresso con le parole, come tutti gli umani... che pare comprendano soltanto questa strana forma di comunicazione, non afferrano altri tipi di linguaggio (se non raramente e parzialmente), e dire che questi sono molto semplici e immediati! Ma evidentemente così è deciso: che specie diverse non possano comunicare più di tanto tra loro. Così io mi ritrovavo al punto di prima. Peggio di prima, se possibile, dopo questi piccoli assaggi di vita vera. Cominciai a lasciarmi andare sul serio: oltre a disturbi del corpo che erano sopravvenuti forse a causa dell’inattività forzata, ero sempre più tormentato da un istinto che mi lacerava dentro, un... richiamo ancestrale, dite voi? Forse, se lo dite voi. (Bell’espressione, complimenti! Sarebbe il famoso richiamo delle origini, vero?) (...Come? Se ho letto Jack London? Per carità, sono innocente, lo giuro! Io non so leggere. Sarebbe estremamente disdicevole, per un cane. E chi era, poi, costui?). Ormai avevo quasi smesso di mangiare: abulia completa. Ero allo stremo; vivere era diventato una lentissima agonia. Non era vita, quella, non per me! Finché un giorno, forse egli riuscì in qualche modo a captare la mia disperata richiesta di aiuto, o forse fui io a trasmetterla a lui alla mia maniera, chissà come accadde; fatto sta’ che avvenne l’inaspettato: "Lui" arrivò e mi portò via di lì, a casa sua... non proprio dentro casa, mi mise nel pezzetto di scoperto sotto casa sua, il piccolo giardino. (In casa sua pareva che io non potessi entrare, ma che m’importava? Non avevo vissuto per troppo a lungo dentro una casa? Per quanto tempo pensate possa resistere un lupo, anche se nato fuori porta ma sempre un lupo, chiuso fra quattro mura e un terrazzo?) (Quante "digressioni", cane! O lupo che sia; su, andiamo avanti con ordine.)

Il primo impatto con la nuova sistemazione non fu di totale ebbrezza e felicità come si potrebbe pensare. Più che altro ero completamente disorientato, sconcertato, confuso. Non potevo ancora credere all’idea di tanta fortuna, così di colpo. Mi ci volle del tempo per abituarmi all’idea. Dovevo adattarmi alla nuova situazione, soprattutto psicologicamente (Ah, no, per favore! Ci risiamo coi sorrisini? Guardate che stavolta potrei arrabbiarmi sul serio! Allora, facciamo così: chi è interessato a conoscere il seguito, metta il sorrisino in cantina per un po’, altrimenti si fermi qui e "grazie comunque per l’attenzione" prestata finora all’idea balzana, assurda insomma, per non dire paradossale, di un cane che si mette a fissare i suoi "pensieri" sulla carta, dopo averli tradotti in parole, nientemeno...)

Comunque sia, è di qui che incomincia il racconto della mia "vera" vita. La parte più interessante, quindi. Per me, almeno. Ora entriamo nel vivo della storia, con o senza il vostro permesso (un po’ dispotico il lupaccio, vero?)

Pur essendo comprensibilmente debilitato, fisicamente non sentivo più niente, né benessere né dolore, tanto le mie sensazioni erano concentrate sull’aspetto del mondo in cui tutto era completamente nuovo per me, tutto ciò che fino ad allora avevo dovuto accontentarmi di osservare da lassù, passivamente, senza poterne far parte. Ora tutto questo mi apparteneva, in teoria. Invece la nuova condizione mi comportava una grande ansietà, un’enorme confusione mentale (ma in fondo, più che comprensibile, no?). Uno strano mix di stordimento e paura: un tumulto interiore indefinibile. E non ancora la piena consapevolezza di ciò che mi stava accadendo. Ero già un po’ avanti con gli anni, ossia: da parecchio ero un cane adulto, e dovevo ancora imparare tutto... soltanto una cosa sapevo da sempre: che mi trovavo in un mondo dominato dagli umani (questo, tutti i "non umani" lo imparano fin da cuccioli).

Infatti, i primi giorni, forse addirittura le prime settimane, non sentivo "mio" neppure quel giardino: troppo piccolo, mi vincolava troppo. Ma non era un problema di dimensioni, anche se fosse stato immenso avrei comunque cercato di scappare, era incontenibile la smania di uscire, di andarmene... dove non lo sapevo, ma via. Se qualcuno sa veramente che cos’è un husky, provi ad immaginarsi nella sua pelliccia, segregato per anni....

Oltretutto il mio liberatore, il mio caro nuovo umano, scelse un particolare periodo per compiere il nobile gesto di strapparmi alla prigionia e portarmi nel suo territorio: proprio quei giorni invernali in cui il freddo è più intenso, nell’ambito dei quali c’è una notte particolare in cui gli umani si mettono a produrre rumori terribili (per le nostre sensibilissime orecchie canine) che rompono la tranquillità consueta e si susseguono ininterrotti per ore... e in cui noi (vale anche per i più avventurosi e spericolati) dobbiamo assolutamente cercarci un riparo altrimenti rischiamo d’impazzire per il terrore. Non so perché lo facciano, so soltanto che per loro è una notte speciale e pare ci si divertano un sacco, a provocare quel frastuono insostenibile. Per nostra fortuna ciò avviene di tanto in tanto.

Comunque il mio nuovo umano questo non lo sapeva, conosceva poco i cani (non aveva mai avuto un cane per amico... forse amici "cani" sì, ma non viceversa -battutina banale attinta da una conversazione tra umani... eh eh...- ) e così la mia prima notte presso di sé mi lasciò solo, all’aperto, senza darmi né riparo né la sua protezione, in un ambiente a me sconosciuto, in balìa di quei botti spaventosi... fu un trauma tremendo, e in preda al terrore scavalcai il cancello e fuggii via, allo sbando, prendendo una direzione a caso... quasi quasi in quel momento (ma fu l’unico, lo giuro!) rimpiansi la mia vecchia casa-prigione, in cui almeno mi era permesso entrare tutte le notti, quindi in quelle stesse terribili notti degli anni precedenti ero al chiuso e i rumori mi giungevano attutiti!... Che fossi caduto dalla padella nella brace (si dice così, no?)? Che la libertà tanto a lungo da me agognata fosse in realtà così terrorizzante? O ero io ormai incapace di gestirmela, io che mi ritenevo tutt’altro che un pusillanime, io che ero certissimo fosse (la mia libertà) l’unica cosa per cui valesse veramente la pena di vivere... per me, almeno. Oltre alla sensazione di panico assoluto dovuta a quegli stramaledetti botti che mi straziavano le orecchie, ebbi anche un momento di profondo sconforto... quasi esistenziale, sì. Come se non bastasse, due umani mi si erano messi alle calcagna, m’inseguivano con i loro mezzi meccanici ("biciclette")... in quel momento fui sommerso da un senso di sgomento infinito verso la specie umana, mi sentii braccato e continuai a correre il più velocemente possibile per distanziare i miei nemici, perché volevano sicuramente farmi del male. Non dovevano catturarmi! Ero terrorizzato al punto da convincermi che tutti gli umani fossero miei nemici.

Ma dopo non troppo tempo mi fermai, anche se un po’ ansante e ancora molto impaurito: quei due umani, che avrei facilmente potuto seminare, mi stavano chiedendo di fermarmi chiamandomi col mio nome proprio, che è un nome brevissimo, monosillabico, dal suono secco come una sferzata e dolce al tempo stesso (adattissimo per un cane, eppure so –sì io so- che non è un nome strettamente canino, bensì umano e uguale tanto al maschile che al femminile). Io mi ero lasciato cadere su uno spazio erboso, il primo che avevo avvistato (avevo un bisogno disperato di sentire l’erba sotto i piedi, per questo mi ero tolto dalla strada) tenendo d’occhio i due umani che mi si avvicinavano... volevano evidentemente acchiapparmi, per cui man mano che si avvicinavano, io mi allontanavo. Ma avevo ormai capito che non avevano cattive intenzioni nei miei confronti, perché continuavano a pronunciare il mio nome con molta dolcezza e allungavano le mani come per accarezzarmi... chiaro che mi conoscevano, io invece non conoscevo loro e mi restava un po’ di diffidenza. A quel punto ero anche incuriosito. Erano due esemplari femmina. Per la verità, viste più da vicino, non avevano niente di minaccioso nell’atteggiamento, comunque, per prudenza, continuai a non lasciarmi avvicinare per un po’, finché una delle due umane se ne andò. Finii per lasciarmi accarezzare e afferrare per il collare dall’altra, una giovane umana dai lunghi peli neri che le scendevano dalla testa. Mi parlò così dolcemente che non potei che decidere di darle fiducia, pur se non la conoscevo. Dopo poco ritornò l’altra, con in mano la famosa corda lega-cane-a-umano, il guinzaglio, insomma. Me lo lasciai mettere e le seguii docilmente fino alla casa del mio umano nuovo, dove mi condussero senza smettere di accarezzarmi, riempiendomi di coccole e parole affettuose.... l’ultima volta che mi era successo ero un cucciolo. Era evidente che si erano accorte della mia fuga causata dalla paura e mi avevano inseguito per rassicurarmi, proteggermi. E per riportarmi a "casa". (Una delle due era la mia "nuova" vicina della mia "nuova" casa, ci conoscemmo meglio in seguito e posso anticipare che ebbe infine una parte molto importante nella mia storia.... ma ci arriveremo. Forse.)

Ormai rincuorato, salii con loro le scale di casa, e dopo le ultime carezze per tranquillizzarmi definitivamente, se ne andarono lasciandomi chiuso nella piccola verandina, al sicuro. (La porta della verandina in cima alle scale era sempre aperta, per fortuna.) Rimasi solo, perché la famiglia era fuori, ma finalmente al riparo. (Quanto alla solitudine, non era un problema: c’ero abituato.)

Passò la notte, il mio umano tornò, fu sorpreso di trovarmi lì e piano piano, giorno dopo giorno, imparò a conoscermi... devo ammetterlo: non sempre felice delle continue scoperte che man mano faceva su di me.

Diverse volte scavalcai il cancello di casa, e lui continuava ad alzarlo mettendoci su un muretto, nella convinzione che io non ce la facessi a superarlo; ci mise del tempo a capire che io, così magro ed agile, riuscivo ad infilarmi di lato e sgusciar via. Tentò allora di sbarrare ogni apertura, ma io riuscivo sempre a defilarmela, e tornavo quando mi pareva di tornare. Non conosceva ancora gli husky. Finché presi definitivamente l’abitudine di scavalcare o infilarmi normalmente, muretto o no: ci vuole altro che un cancello con un muretto sopra per fermare un husky, se il suddetto decide di scappare! Provò anche a tenermi legato a una corda molto lunga e robustissima (a prova delle mie temibili zanne) – tutto questo per il mio bene, per impedirmi di fuggire e finire prima o poi sotto qualcuno di quei mostri d’acciaio che sfrecciavano veloci a poca distanza da casa -. Ma io, in quella condizione, non riuscivo a trattenermi dall’ululare ininterrottamente, proprio senza sosta, giorno e notte, disturbando tutto il vicinato... finché il poveretto fu costretto a sciogliermi e lasciarmi libero di andarmene dove e quando mi pareva. Infatti, un pomeriggio, mentre ero in giardino legato alla maledettissima corda, mi colse un accesso tale di rabbia impotente che, per non impazzire, cessati gli ululati, mi buttai nella piccola aiuola scavata e riempita di terra personalmente e con tanta passione dal mio umano, e dove egli stesso aveva amorevolmente piantato tante belle piantine: scavando furiosamente con le zampe svuotai quasi per intero l’aiuola dalla terra e buttai all’aria tutte le piantine.... "Attila non avrebbe potuto fare di meglio", fu il commento della mia vicina, che aveva visto tutto, tra l’allibito e il costernato... non so chi fosse Attila.... (ah,sì, forse si riferiva a quel cagnone dal pelo fulvo, semi-randagio, uno dei tanti che conoscevo, gli umani lo chiamavano così. Andavamo anche d’accordo, purché naturalmente non ci fossero femmine nei dintorni. Non mi aveva mai detto, però, che fosse la sua specialità svuotare le aiuole...). Il mio umano, al ritorno, trovandosi di fronte ai risultati della mia furia devastatrice, scherzò di meno, ma neppure in quell’occasione mi punì. Però il misfatto che si trovò di fronte fu decisivo: si persuase definitivamente a non legarmi più.

Già, gli husky, normalmente, non abbaiano ma ululano... dice qualcosa, ciò? Non siamo esattamente cani come gli altri. Dicevo che il mio umano si stancò di mettere sbarramenti alla mia libertà, le mie fughe divennero cosa normale. Forse lui a quel punto cominciò a rendersi conto di quanto fosse difficile "gestirmi" e si pentì del suo generoso gesto... forse qualche volta sperò che non tornassi più, per sbarazzarsi di me e di tutte le grane che gli causavo (e non aveva ancora visto niente!). Visto che me ne andavo sempre, che andassi al diavolo, una volta per tutte.... Ma no, sto scherzando, sono sicuro di no. Io lo adoravo, e non credo di essere mai riuscito a esprimergli la mia gratitudine fino in fondo.

Da quel momento cominciò la mia vera vita di "lupo fuori porta". (Ma questo non l’avevo già detto in precedenza? Boh!) Pian piano presi coscienza della mia identità. Assillato da molti dubbi, però. Vagavo senza una meta, apparentemente; in realtà, "cercavo". E conobbi, finalmente, il mondo degli umani, senza mai capirlo. Del resto, noi non cerchiamo mai di capire (devo ribadirlo, anche se nel corso del racconto cadrò spesso in contraddizione. Contraddizioni madornali, per di più. E il bello è che non è neppure colpa mia; la colpa caso mai è tutta di... ma si vedrà via via di chi é... In ogni caso, pur se non dovrei farlo perché non c’entro nulla, chiedo venia per tutto ciò).